MARICETA GANDOLFO. Docente Liceo Classico.

Fonte: AUPI. LINK RIVISTA SCIENTIFICA DI PSICOLOGIA. VOLUME 1/ 2017.

Che il viaggio sia una metafora della vita è cosa nota fin dall’antichità e ha ispirato in ogni tempo poeti ed artisti. Il breve lasso di tempo nel quale si condensa la nostra esistenza di creature finite “trafitte da un raggio di sole”, fra l’ignoto da cui proveniamo e l’ignoto verso cui siamo diretti, ha sempre suggerito l’idea di un passaggio, un tragitto, un treno che corre nella notte (un’immagine post-rivoluzione industriale).

D’altronde, il primo grande romanzo della società occidentale è imperniato su un viag-gio lungo e periglioso che il protagonista Odisseo compie, superando infiniti ostacoli, per raggiungere la meta agognata, la casa natale da cui era partito vent’anni prima.

Per gli antichi il viaggio era considerato un rischio, una prova piena di insidie e pericoli, che alcuni uomini erano costretti ad affrontare per poter realizzare i propri progetti e conseguire il premio che li aspettava alla fine.L’interpretazione moderna della figura di Ulisse, che in verità non vorrebbe tornare a casa e si creerebbe, volontariamente o inconsciamente, le occasioni da cui scaturiran-no sempre nuovi pericoli ed impedimenti, è molto nota e può apparire senz’altro con-vincente ed affascinante, ma è appunto un’interpretazione “moderna”, che è passata attraverso lo studio della psicologia, ed in particolare della psicanalisi, e che forse ha il difetto di essere “antistorica”, in quanto vuol vedere nel viaggio di Ulisse più di quello che Omero (ammesso che sia mai esistito) vi vedeva con gli occhi e le categorie mentali di un uomo greco vissuto migliaia di anni fa.Oggi ci rendiamo conto che il “senso” del viaggio è profondamente diverso per noi moderni, rispetto al passato e questo grande mutamento avvenne intorno al 1700.

Se prima si viaggiava per necessità (pensiamo ai viaggi dei mercanti medievali come Marco Polo) o per adempiere ad un voto religioso, il famoso pellegrinaggio a Santiago de Compostela, o per trovare una via più breve ed economica per raggiungere grandi ricchezze (i grandi viaggi di esplorazione del quindicesimo e sedicesimo secolo), oggi l’uomo moderno viaggia principalmente per piacere.

Il viaggio, dunque, da mezzo si è trasformato in fine ed il percorso è diventato più importante della meta.Tornando alla metafora iniziale della vita umana come un breve percorso, potremmo osservare che l’uomo moderno ha una visione della vita più umanistica che trascenden-te: la vita terrena in sé e per sé viene considerata importante e degna di rispetto in-dipendentemente dalla vita ultra terrena che potrebbe attenderci alla fine del viaggio.Nel ‘700, secolo di grandi rivoluzioni culturali, economiche e sociali, cominciò a dif-fondersi l’idea che viaggiare, nonostante la scomodità dei mezzi di trasporto, sia un piacere e contribuisca alla formazione spirituale dell’individuo e le famiglie ricche che possono permetterselo, inseriscono il ”Grand Tour” nel percorso educativo dei propri rampolli, sulla scia aperta da grandi pensatori come Goethe e Chateaubriand.

La cultura neoclassica imperante impone la Grecia e l’Italia come tappe fondamentali del “Grand Tour”, mentre ancora non è nato il desiderio di mete esotiche o stravaganti.

Queste ultime, fra le preferite dai viaggiatori moderni, soddisfano una nuova esigenza del viaggio nell’età contemporanea: il viaggio come evasione.I ritmi imposti dalla società industriale, l’alienazione di un lavoro monotono e ripe-titivo, le convenzioni sociali di una realtà super-programmata esigono una pausa, un distacco, per prima cosa un distacco fisico, un allontanamento dai luoghi abituali di lavoro e di vita sociale, nella speranza di realizzare anche un distacco psicologico, che aiuti l’individuo a recuperare il proprio equilibrio fisico e mentale, in vista di un ritorno alle attività consuete. La società industriale, ben consapevole di ciò, ha inventato le ferie, periodo di riposo dall’attività lavorativa, diritto fondamentale dei lavoratori, ma, nello stesso tempo, strumento che permette la conservazione del sistema.

E le ferie spesso coincidono con un viaggio, tanto più gratificante quanto più la meta è lontana ed esotica: la società giapponese, una delle società industriali più programmate ed organizzate, concede ai lavoratori, una volta nella vita, un lungo viaggio in Occidente, alla scoperta delle più affascinanti capitali europee, in cambio di un’intera esistenza di sottomissione ed obbedienza al sistema.

Noi oggi carichiamo le ferie, con eventuale viaggio, di un’aspettativa tanto spro-porzionata che spesso si risolve in una delusione: l’agognato riposo non si realizza perché non riusciamo a staccarci subito dagli orari della vita lavorativa (tranne che alla fine della vacanza, quando è tempo di tornare al lavoro) e perché programmiamo tante di quelle attività da rendere le nostre giornate di ferie altrettanto faticose delle giornate di lavoro, dimenticando che l’etimologia stessa della parola “vacanza” risale ad un senso di vuoto, di non-pieno.Vacanza” dovrebbe significare uno spazio vuoto, libero da impegni e doveri sociali, in cui concederci il lusso di fantasticare, di leggere, di riflettere, di coltivare quello che gli antichi romani chiamavano “otium, che aveva un significato ben diverso da quello di ”padre di tutti i vizi”.

In questo contesto si inserisce l’attività del viaggiare, che subito ci richiama ad una dicotomia: il viaggio come pura evasione o come strumento di conoscenza ed arric-chimento spirituale? Chi non ha mai viaggiato sogna di poterlo fare (e maledice le ristrettezze economiche che glielo impediscono), chi ha molto viaggiato spesso non nasconde un senso di delusione e confessa che la preparazione e le fantasticherie sul viaggio da realizzare sono talvolta più affascinanti del viaggio stesso.

A questo punto è fondamentale sottolineare la differenza fra “viaggiatore“ e “turi-sta”, già sottolineata nel film di Bernardo Bertolucci Il tè nel deserto.Noi siamo viaggiatori, non turisti” proclamano orgogliosamente i protagonisti, all’i-nizio del viaggio in Oriente che stravolgerà le loro vite.Il turista è colui che attraversa paesi stranieri senza mai entrare veramente in con-tatto con la nuova realtà in cui si trova, spesso intruppato in un viaggio di gruppo, trasportato e sballottato di qua e di là secondo un programma prefissato (“Se oggi è martedì, questo deve essere il Belgio” è il titolo di un divertente film), che passa il tempo a fotografare invece di cogliere un’atmosfera, che chiede gli spaghetti alla bolognese ad Hong Kong e poi si lamenta se li trova scotti.Il viaggiatore, invece, è colui che prima di partire si documenta sulla storia del Paese che andrà a visitare, che cerca di calarsi nell’atmosfera del luogo, che assaggia la cucina locale, che cerca di farsi nuovi amici fra gli abitanti del Paese straniero e a loro si affida come guida per scoprirne gli aspetti più interessanti, non solo dal punto di vista turistico, ma anche sociale, culturale ed umano.

Prototipo di questo tipo di viaggiatore è stato il giornalista Tiziano Terzani, prema-turamente scomparso per un tumore a metà degli anni Novanta.Terzani è stato corrispondente di guerra di alcune importantissime testate come”Der Spiegel”, ma è stato soprattutto un viaggiatore instancabile, curioso ed attento, che dei Paesi che ha visitato (il Vietnam, la Cambogia, il Giappone e soprattutto la Cina) ha lasciato ritratti indimenticabili. Nel suo testamento spirituale (“Nella fine è il mio inizio”, autobiografia in forma di colloquio col figlio) Terzani confessa che forse si è sentito più viaggiatore che gior-nalista, perché il desiderio di viaggiare è stata la molla che lo ha spinto a rifiutare un posto sicuro a Firenze e a tentare la carriera di corrispondente straniero di alcuni prestigiosi giornali europei.

Il metodo di Terzani per riuscire a cogliere l’atmosfera del Paese in cui era inviato consiste nello studiarne la lingua, la storia, l’economia, nel viaggiare sui mezzi di trasporto locali, nel frequentare i mercati, nell’assaggiare la cucina del posto, nel prendere casa e trasferire la famiglia al suo seguito.Senza arrivare a soluzioni così radicali, si può prendere qualche suggerimento per far sì che il nostro viaggio non si risolva in un’esperienza vuota

e superficiale, ma ci regali autentiche emozioni e un reale arricchimento spirituale: non è necessario che la meta sia lontana o esotica, anche un viaggetto nella propria regione, alla scoperta degli angoli più nascosti e dimenticati, in compagnia delle persone giuste con cui ci si senta veramente in sintonia, può darci emozioni indimenticabili.

Vorrei concludere citando un film e un racconto: il film è “Una gita scolastica” di Pupi Avati, regista delicato ed intelligente che racconta il viaggio d’istruzione di una sco-laresca dei primi del ‘900; a differenza di quello che succede oggi, non si tratta di un costoso viaggio all’estero, ma di una semplice gita a piedi nell’Appennino emiliano che si rivela una vera e propria esperienza di vita per i ragazzi e i loro insegnanti.Il racconto del mio amato Pirandello (da cui è stato tratto un film) è Il viaggio: una donna ancora giovane, ma già vedova, viene colpita da un male incurabile. Da ragaz-za è stata innamorata del futuro cognato, ma la famiglia l’ha obbligata a sposare il fratello maggiore più ricco.

Lei si è sottomessa, è stata una buona moglie e madre ed ha vissuto tutta la vita chiusa in casa, assorbita dai doveri domestici, non vedendo nulla del mondo e tra-scurando completamente se stessa, mentre il cognato, per cercare di dimenticare quest’amore impossibile, ha trascorso l’esistenza viaggiando. Ora il caso, sotto for-ma della malattia di lei, li riunisce inaspettatamente: il cognato amorevolmente si prende l’incarico di accompagnarla a farsi visitare dai più importanti luminari della medicina ed inizia così questo viaggio a due che va da Palermo a Napoli, a Venezia.Dovrebbe essere un viaggio triste, perché il verdetto è inesorabile, ma per la donna si trasforma nell’unica occasione che la vita le offre di uscire dall’ambiente soffocante del paese, di vedere grandi città brulicanti di vita, di visitare luoghi magnifici in compagnia dell’uomo da sempre amato.

E per lui è l’occasione per ripagarla di tutto ciò che non ha mai avuto, di mostrarle quei luoghi, che lui ben conosceva ma che per lei erano meravigliose scoperte, di circondarla di quella cura e tenerezza con cui si può esprimere un amore sempre soffocato.Ecco dunque che un viaggio verso la morte si trasforma in un viaggio verso la sco-perta della vita e dell’amore.Sarebbe bello che ognuno di noi potesse provare, almeno una volta nella vita, l’inten-sità di un’emozione, sia attraverso un viaggio, sia attraverso qualunque esperienza che ci coinvolga e ci faccia sentire vivi.

BIBLIOGRAFIA

Andrete B. (1983) L’immagine di Ulisse: mito e archeologia. Einaudi, Torino.

Brilli A. (1995) Quando viaggiare era un’arte. Il romanzo del Grand Tour. Il Mulino, Bologna.

Cantarella E. (2002) Itaca. Feltrinelli, Milano.

Goethe W.J. (1980) Viaggio in Italia. Sansoni, Firenze.

Omero (2010) Odissea, ed. integrale. New Compton, Roma.

Pirandello L. (2007) Il viaggio; in Novelle per un anno. Mondatori, Milano.

Terzani T. (2006) La fine è il mio inizio. Longanesi, Milano.

N.B.:Le principali interpretazioni psicoanalitiche della figura di Ulisse sono riportate in Wikibooks alla voce “Interpretazioni psicoanalitiche dell’Odissea”.

I film citati

Pupi Avati “Una gita scolastica”,1983.

Bernardo Bertolucci “Il the nel deserto”, 1990.

Vittorio De Sica “Il viaggio”, 1974.